USKOK
Storia degli Uscocchi
di Aniello Zamboni e Cesare Bornazzini
Quella degli Uscocchi è una storia messa a tacere e dimenticata.
Occupa un breve spazio nel grande mosaico dei traffici e dei conflitti che nei secoli hanno avuto luogo nel mare Adriatico. Comincia presentandosi come la lotta di un pugno di audaci contro l'impero ottomano alla conquista metodica dei territori europei. Una storia nella quale, almeno all'inizio, accanto ad episodi di crudele violenza brillarono la fede religiosa e l'amor di patria di poche centinaia di uomini, gli Uscocchi appunto, estranei agli intrighi politici delle potenze europee propense a raggiungere un compromesso piuttosto che condurre una lotta ad oltranza contro i turchi.
Appartenevano alle popolazioni balcaniche (bosniaci, bulgari, croati, morlacchi, serbi, macedoni, montenegrini, albanesi, rumeni) e ungheresi fuggite di fronte all'avanzata della Sublime Porta: uscocchi infatti, dal serbo croato uskok = fuga, è il nome dato ai fuggiaschi, ai profughi.
Il primo notevole stanziamento si formò a Clissa, a poca distanza da Spalato.
Cacciati di qui, nei primi decenni del Cinquecento ripararono a Segna, una città del litorale adriatico croato, posta sotto la sovranità asburgica, situata tra Fiume e Zara, nel canale della Morlacca, di fronte all'isola di Veglia. Portavano con sé il dolore della patria lasciata e l'odio il più implacabile contro coloro che li avevano privati di quanto avevano di più caro e di più santo.
Ad essi, alle loro iniziative limitate, isolate e frammentarie, animate più dall'odio profondamente radicato contro chi li aveva costretti ad allontanarsi dalla propria patria e cercare rifugio altrove, che sorrette dalla forza delle armi, era affidata l'opposizione ai turchi.
É vero che nel clima nuovo e vibrante della riforma cattolica la crociata bandita da Pio V aveva ottenuto a Lepanto (7 ottobre 1571), nel cuore dell'impero ottomano, una portentosa vittoria grazie soprattutto all'abilità del comandante supremo Giovanni d'Austria, fratello del re di Spagna, e agli ammiragli veneziani Sebastiano Venier e Agostino Barbarigo.
Ma quella che è ancor oggi celebrata come una gloria della cristianità non fu sfruttata appieno perché Venezia, interessata alla ripresa dei suoi commerci, preferì intavolare trattative con gli ottomani.
Ma l'Adriatico o, meglio, il Golfo di Venezia come la Serenissima preferiva nominarlo anche nelle carte a sottolineare una propria indiscussa signoria, non divenne dopo Lepanto un mare tranquillo: lo sconvolgevano le imprese corsare che gli Uscocchi conducevano con proprie imbarcazioni, ma con l'autorizzazione degli arciduchi d'Austria, contro le navi della mezzaluna e quelle veneziane. Gli Asburgo li finanziavano nel duplice fine di ostacolare l'avanzata turca e di contrastare il dominio veneto che costituiva un freno alle loro attenzioni sull'Adriatico e un impedimento alla libera navigazione.
Forti delle conoscenze marinaresche acquisite dai dalmati, anch'essi fuggiaschi di fronte alla marea turca, e da fuoriusciti veneziani, gli Uscocchi erano abilissimi marinai che solcavano l'Adriatico su imbarcazioni molto lunghe e sottili, facilmente manovrabili nei lunghi e stretti bracci di mare che costellano la costa dalmata, con un equipaggio composto dai trenta ai cinquanta rematori che al tempo stesso erano combattenti armati di asce, coltellacci, pugnali e di archibugi.
Le barche più usate erano le brazzere, cosiddette dall'isola di Brazza – Brac o perché erano spinte a braccia (= brazzo); non erano trascurate anche le veloci e sottili fuste, con diciotto o venti remi per fianco, rese più spedite dal vento che gonfiava il polaccone a prua. Erano così veloci che si diceva che gli Uscocchi avessero il vento, il mare e i diavoli dalla loro parte; si raccontava che fossero addirittura padroni della bora che potevano far soffiare a loro volontà: "si mettono semplicemente in disparte, accendono il fuoco e la Bora è pronta".
Le loro barche, le brazzere e le fuste, erano dipinte di rosso e di nero: il colore del sangue, della vita, dell'ardimento e della lotta il primo, e il colore delle tenebre della notte e della morte il secondo. Ardimento e morte erano intimamente congiunti in ogni scorreria, sì che poteva annoverarsi tra le dita di una sola mano chi poteva dirsi morto nel proprio letto.
Peraltro motivo di disonore per sé e per la propria famiglia, in contrapposizione alla gloria e all'onore ostentati da chi poteva vantare nel proprio "casato" quanto più possibile di caduti per la causa, sbudellati, impiccati o tagliati a pezzi non importa.
Il coraggio e l'ardimento degli Uscocchi erano indicibili, sì che l'imperatore Carlo V d'Asburgo notava che essi "sono i migliori uomini del mondo in periodo di guerra". Non minore la lode del suo successore Rodolfo II che arrivava a definirli "l'unica fortezza dello Stato". E avevano ben ragione: erano lo scudo e l'antemurale contro i turchi, che gli Asburgo stipendiavano generosamente o con parsimonia secondo il pericolo.
Anche il papa Gregorio XII li lodava: viste inascoltate le sue esortazioni a frenare l'avanzata ottomana, li riteneva gli ultimi valorosi e generosi difensori della cristianità, tanto che arrivava a definirli "i Maccabei resuscitati", paragonandoli alla lotta di Mattatia e dei suoi figli ai quali, come agli Uscocchi, lo straniero invasore aveva tolto tutto:
Ecco, le nostre cose sante,
la nostra bellezza, la nostra gloria
sono state devastate,
le hanno profanate i pagani.
Perché vivere ancora? (Maccabei, I, 2, 12-13)
Ma c'era chi non li riteneva altro che dei predoni, dei pirati che infestavano l'Adriatico, minavano i commerci della Serenissima non trascurando il saccheggio di paesi e di località costiere, come quando nell'inverno del 1599 misero a ferro e a fuoco Fianona, in Istria, dove addirittura inalberarono la bandiera degli Asburgo e costrinsero gli abitanti a giurare fedeltà all'Austria.
Un atto di aperta ostilità contro la Serenissima al cui dominio la cittadina era soggetta; una dimostrazione di essere i "corsari" degli Asburgo.
Erano una peste insomma contro la quale Venezia era costretta a presentare risolute proteste nei confronti di Vienna e, quando queste non bastavano, ad adoperare vere e proprie azioni di guerra.
Ma "la lotta tra Venezia e gli Uscocchi è come la lotta tra il leone e la zanzara": lo scrive il vescovo di Zara Minucio Minuci nella Historia degli Uscocchi, proseguita dal grande uomo di studio e di dottrina Paolo Sarpi. In quest'opera abbondano giudizi fortemente negativi nei confronti degli irriducibili nemici che nelle loro imprese non facevano distinzione tra navi della Sublime Porta e navi della Serenissima.
Giudizi nei quali pertanto non è assente un forte spirito di patria, in particolare di Sarpi il quale, laico e civile, considerava immeritato il nome di intrepidi difensori del cristianesimo dato agli Uscocchi da teologi interessati: lo riteneva né più né meno di un manto che sotto apparenti valori ideali nascondeva il saccheggio in mare e il brigantaggio in terra. Gli Uscocchi, non lo si può negare, erano dei predoni crudelissimi che, costretti a vivere in una terra economicamente inospitale, trovavano nella guerra di corsa la ricchezza bella e pronta; erano uno strumento della politica asburgica che li assoldava per contrastare il dominio di Venezia sull'Adriatico con stipendi pagati con tal parsimonia e a scadenze non rispettate da divenire un incitamento alla pirateria; uno strumento anche dei veneziani che li avversavano quando erano in pace coi turchi e li favorivano quando erano in guerra; uno strumento per l'universo di venturieri, scappati dalle galere di Venezia o di Napoli, banditi dalle Puglie, dallo Stato romano o dal veneto, le peggiori "schiume del mondo", i quali "non hanno per peccato rubbare" e trovavano nella corsa un facile mezzo per arricchirsi spinti anche dalle loro donne "use a sguazzare e a vestir scarlato e seta senza maneggiar conocchie o fusi". Uno strumento, infine, di frati e preti che ne guidavano le coscienze e "partecipavano al bottino in ragione di posta", e di quanti, mandati per reprimere le loro rapine, giungevano a Segna cenciosi e "partivano con muli carichi d'oro".
Una connivenza delittuosa e nel contempo fruttuosa, ma anche necessariamente obbligata, se pensiamo alla tragica fine di Giuseppe Rabatta, un uomo integerrimo, mandato da Vienna a Segna su pressione della diplomazia veneziana per riportare ordine e giustizia in quel covo senza legge.
Rabatta mette a frutto con determinatezza e decisione i pieni poteri datigli: condanna alla galera e a morte i capi, arresta i subalterni, confina i sospetti in località lontane, sostituisce con tedeschi che ha condotto con sé gli Uscocchi del presidio. Ad ostentare la sua risolutezza orna con macabri trofei di uscocchi impiccati i torrioni del castello di Segna.
Ma così facendo mise a rischio la propria vita e, quel che importa a Segna, mise a repentaglio la vita e la reputazione della comunità: il fervore religioso, la mistica della violenza, il coraggio individuale, la stima e l'onore di intere famiglie, guadagnati in anni e anni di imprese onorate dal successo e dal ricco bottino, costrette all'inoperosità. Non ultima metteva a repentaglio la rete d'interessi economici che si era andata intessendo attorno alle imprese piratesche e che va ben aldilà di Segna.
Gli fu fatale l'arresto per diserzione di Jurissa Sucich, l'ultimo e venerato capo uscocco, ritornato con i suoi uomini a Segna dall'Ungheria, dove Rabatta l'aveva spedito a combattere. Convinti che sarebbe seguita la condanna a morte di Jurissa, la notte del 31 dicembre 1601 gli Uscocchi, rientrati in città da ogni dove, aiutati da tutto il popolo, assediarono il castello; abbattuti tre ordini di porte, vinta ogni resistenza, raggiunsero Rabatta: "lo gettarono subito a terra con due Archibugiate doppo che lui, sparata già la pistola, aveva impugnata la spada per fare quella difesa che il tempo e la necessità li concedeva"; gli tagliarono la testa che "posero in loco pubblico a manifesto spettacolo del popolo".
Con l'assassinio di Rabatta tutto torna come prima e si trascina in un crescendo di episodi e di contrasti che portano ad una vera e propria guerra, la cosiddetta guerra di Gradisca, dal nome della città dove infierì più che mai; nota anche col nome di guerra degli Uscocchi: i pirati che a causa dell'intrepidezza delle loro imprese avevano acceso le polveri che Venezia e Austria andavano da decenni ammassando nei loro magazzini per ridefinire quei confini che circa un secolo prima (1521) il trattato di Worms aveva tentato di regolamentare.
Numerosi e degni di nota sono gli assedi, le distruzioni, gli eccidi, i rapimenti che si susseguirono per terra e per mare prima e nel corso del conflitto, che hanno avuto per protagonisti gli Uscocchi. Di certo il più raccapricciante fu l'assalto alla galea veneziana di Cristoforo Venier nel porto di Mandre, nell'isola di Pago il 12 maggio 1613. Conservato vivo il solo Venier; giunti presso Segna, "fecero smontare lui e gli troncarono il capo con la manara e spogliato il corpo lo gettarono in mare e apparecchiato il desinare posero il capo dell'infelice sopra la mensa dove stette mentre durò il servizio".
La pace di Madrid (1617) pose fine alla guerra e abbandonò gli Uscocchi al loro destino. I sopravvissuti dalla guerra e dal repulisti che fece impallidire il ricordo di quanto operato da Rabatta, ritornarono ad essere profughi, Uskok, di nome e di fatto: la maggior parte venne confinata all'interno della Croazia, vicino a Karlovac e nei cosiddetti Monti Gorjanci detti da allora Monti degli Uscocchi, alcuni furono imbarcati su navi spagnole, pochi rimasero in Istria, pochissimi a Segna; le fuste e le brazzere furono bruciate.
L'epilogo della tragica storia si ebbe nel 1620 allorché sei Uscocchi, giunti di nascosto a Cherso, furono catturati ed impiccati.
Il ricordo delle loro imprese e del loro coraggio lo risveglia la ricca documentazione raccolta nelle sale dell'imponente fortezza di Nehaj costruita nel 1558 a poca distanza da Segna dal capitano uscocco Ivan Lenkovic per controllare il porto e il braccio di mare chiuso, di fronte, dal brullo profilo dell'isola di Krk, su cui il soffio costante della bora vanifica da millenni ogni velleità da parte della natura di colonizzarne la superficie.
In quelle sale, accanto a manichini che presentano l'abbigliamento "di pace e di guerra" degli intrepidi corsari, alle loro armi, in particolare le mannare affilate, pannelli didascalici corredati da chiare raffigurazioni raccontano le loro imprese più belle contro i turchi e i veneziani; tacciono o sorvolano su quelle piratesche.
Proprio dalla fortezza di Nehaj apprendiamo che l'eroismo degli Uscocchi rifulse più che mai nella difesa di Segna, una città, allora, munitissima fuori e dentro: fuori dalle brazzere e dalle fuste che solcavano il mare, dentro dall'audacia dei suoi abitanti stretti dietro la poderosa cinta delle mura scandite da torri circolari di cui avanzano notevoli resti. Non sfuggì al loro fascino il poeta Gabriele D'Annunzio che battezzò Uscocchi alcuni dei suoi uomini i quali in veloci unità navali, durante l'avventura fiumana, garantivano rifornimenti ai legionari di Ronchi con azioni di razzia verso il naviglio straniero che incappava nelle loro incursioni.